
Seconda stagione estiva dell’era pandemica.
Sempre più spesso è possibile intercettare conversazioni in cui alla domanda “dove?” viene risposto un “quando”.
Sembra immediato, ormai assimilato, una conseguenza ovvia: dove è quando.
Lo si deduce dallo scambio di poche battute tra conoscenti, per strada, davanti alle scuole, nei corridoi ancora semi frequentati degli uffici. Ne parlano i pazienti a studio privato, proponendo una dimensione di frustrata e inoperosa attesa.
“Dove andrai a cena fuori? domanda.
“Quando riapriranno”, “quando finirà il covid-19”, “quando toglieremo le mascherine”, “quando saremo tutti vaccinati”. Risposta.
Quando è il luogo emozionalmente più condiviso di questo 2021.
È la risposta che va bene a qualsiasi domanda, è lo spostarsi in un futuro plausibile scollegato al presente, in cui si è tornati a vivere un luogo dimentico dell’epidemia e del suo vissuto luttuoso: una specie di Wunderkammer, o stanza delle meraviglie, senza luogo nè tempo.
È un quando che smette di tener conto di oggi e anela al pre pandemico come valle dell’Eden. Quando è il posto in cui ogni agire non deve confrontarsi con i limiti che il virus ci ha messo davanti.
Ancora. Leggo un articolo del New York Times che descrive un nuovo stato emozionale da pandemia, il languishing, uno stare languidi senza slanci né picchi emozionali. Come se i tempi lunghi della lotta al virus avessero costretto le persone a economizzare sulle proprie emozioni, una letargia difensiva per sopravvivere alle restrizioni, alle chiusure, ai confinamenti, ai tanti “questo non si può più fare”.
Mi vengono in mente due cose. La prima ha a che fare con l’espressione “attesa pretesa” e con l’ipotesi che questa volta siamo dentro un’attesa investita di una responsabilità che ha un diverso sapore. L’attesa pandemica non ha pretese, tutt’altro, e diventa, a quasi un anno e mezzo dall’inizio dei contagi, una formula difensiva, un anestetico emozionale: “così da non farmi sopraffare dalla rabbia, dalla frustrazione, dal senso di impotenza, tanto non posso farci niente, dobbiamo aspettare, finirà”.
La seconda attinge dall’ espressione “ai miei tempi, quando…” detta dalle personnes agées.
Questa frase riporta chi parla e chi ascolta indietro nel tempo, dentro ricordi di un tempo “che fu”, un quando che ha già giocato le sue carte, né male né bene, oppure, au contraire, tanto male e tanto bene, a cui ci si riferisce, più plausibilmente, per rievocare un tempo personale, la giovinezza ad esempio, in cui le cose erano note e familiari per chi le evoca.
Quello che avverrà d’ora in poi non sarà più già noto. Cosa significherà questo per le persone e come adattarci al nuovo, ricostruendo un sistema di convivenza basato su regole condivise, sarà a carico di ognuno. La cultura si organizzerà in un nuovo sistema collusivo a partire dagli accadimenti del 2020, che si preannuncia, presumibilmente, come spartiacque tra un prima e dopo.
Il “quando”, quel “quando sarà tutto finito faremo, diremo, organizzeremo” ha il sapore di un se, senza la sua crudezza. Sembra esprimere una speranza, o una tracotante convinzione, antidoto ai vissuti mortiferi che la pandemia ha spesso generato.
Dove diventa quando, quando esprime un se con tutte le emozioni di cui questo se si fa portavoce. Non resta che rispolverare la proprietà transitiva e dire che in fin dei conti alla domanda dove rispondiamo ormai di riflesso con un se…
Polisemia degli avverbi, altro che languore e appiattimento.
Ogni riflessione ci conduce a pensarci immersi nel mare magnum delle nostre emozioni a cui possiamo, se le pensiamo, dare accoglienza anziché fare la fantasia che sia più facile metterle da parte.
Carolina Host

Carolina Host
Psicologa Clinica e Psicoterapeuta
ad orientamento Psicoanalitico