
Distanziamento, isolamento e solitudine sono parole che ho sentito evocare spesso in questo periodo di pandemia.
Sono i modi con cui le persone si raccontano, parlano di loro, dichiarano i loro problemi e dicono come stanno cambiando i rapporti con l’altro oggi.
Sono parole che fanno sentire soli. Che necessitano il porsi domande e comprendere in che modo sono in rapporto con la nostra esperienza e i nostri vissuti.
Sono parole che se inserite in questo momento storico ci dicono qualcosa di come e dove stiamo.
L’esperienza della pandemia imposto cambiamenti nelle nostre vite, il nostro modo di pensare e sentirci. Probabilmente di alcuni di questi nemmeno ce ne accorgiamo ancora. Cambiamenti nella cultura, nel modo di pensare, nelle abitudini.
Per alcuni l’esperienza del covid è stato come essere messi con le spalle al muro, ha messo in discussione fantasie onnipotenti, sconfermandole e obbligandole a confrontare con l’imprevedibilitá.
Abbiamo lasciato che entrasse nelle nostre vite e le mettesse a soqquadro a patto che ce ne potessimo difendere il più possibile.
Di fronte alla minaccia della salute, ognuno di noi, a suo modo, ha messo da parte qualcosa, pur di esserci, di proteggere se stesso, la propria famiglia, i propri amici e il proprio vicino.
In qualche modo questa operazione di astinenza dal quotidiano ci ha permesso di procedere, crescere e resistere.
Cosa accade oggi che si riprova a ripartire, a ridare speranza, a cominciare a credere che un giorno ci metteremo tutto alle spalle? Oggi che le persone hanno iniziato a riprendere contatti con la vita di sempre? In cui quello che è stato tenuto fermo, immobilizzato, trattenuto, si rilassa e riprende il suo scorrere, lento ma costante.? Dove andranno? Come prenderanno posto? Quanto tempo impiegheranno?
Una questione che riguarda tutti da vicino è senza dubbio la ripresa della socialità: uscire, divertirsi, andare a cena fuori, partecipare ad un concerto, viaggiare.
Sto notando dimensioni di pretesa, di obbligo, di adesione piuttosto che di desiderio.
La ripresa della socialità viene vissuta come ribaltamento/reazione vitale all’isolamento forzato che ha condizionato tutti noi in questi ultimi mesi.
Ma siamo proprio sicuri che sia per tutti così attesa?
Questa smania di socialità mi fa pensare al costo del distanziamento sociale e alla voglia di riappropriarci delle cose che ci piacciono, che ci fanno stare bene, come una gita in barca, una serata con gli amici, una passeggiata al mare.
Per alcuni, però, la riapertura ha significato il ritorno alla vita sociale frenetica e spasmodica di sempre. Faccio l’ipotesi che questo sia il risultato di vissuti di angoscia e ansia da prestazione che stanno riemergendo. Il rischio è che la socialità torni ad essere vissuta come una norma conformista a cui aderire in nome di fantasie di popolarità e successo, in cui tanto più si è contornati da persone tanto più ci si pensa capaci, intraprendenti e interessanti. Questi sono i casi in cui lo stare soli è vissuto come la manifestazione della propria incapacità di stare in rapporto con se stessi, quando l’altro e la sua presenza diventano indispensabili per colmare un bisogno privato che non faccia sentire soli e inadeguati.
Ora che si riaprono le porte non c’è tempo da perdere, bisogna uscire, viaggiare, muoversi. L’uscita in alcuni casi diventa una dimensione violenta, che va fatta a tutti i costi, pena il rimanere tagliato fuori.
Il rischio che sento é di vanificare quanto sia stato faticoso farsi carico della propria solitudine in questo periodo e riuscire ad investire produttivamente nella cura di noi stessi, riconoscendo questo come un tempo utile per recuperare le proprie parti vitali e desideranti, libere cioè dai condizionamenti sociali e culturali.
Forse siamo ancora in tempo per scegliere come vogliamo essere e recuperare quanto abbiamo appreso di noi in questo periodo di pandemia.
Sospendere, fermare, ascoltare sono alcuni dei modi che abbiamo esperito. Questa che si sta presentando a noi può essere davvero un’occasione per divergere dal noto ed esplorare dimensioni sconosciute e libere dal peso della quotidianità prescritta.
Penso alla parola solitudine psicoanaliticamente come la competenza a saper stare in rapporto con le proprie emozioni, occuparsi di sé, desiderare e investire affettivamente in quello che ci piace, ci fa star bene.
Questo modo di pensare la solitudine è poco condiviso.
Culturalmente solitudine è qualcosa da cui difendersi, da tenere lontana, da risanare.
La proposta che sto facendo si fonda sul principio di imparare ad apprendere a pensare le proprie emozioni. Rivolgere i propri pensieri su se stessi può risultare frustrante, faticoso, complesso. Soprattutto quando il modo di pensarci è colluso culturalmente con fantasie di successo e popolarità.
Credo che sia possibile rinegoziare nuovamente il nostro modo di stare al mondo, non pensando necessariamente a cancellare questo lungo e inatteso periodo segnato dalla pandemia da covid-19, ma cercare piuttosto di recuperare l’esperienza e mettere in gioco nella società che si riapre i nuovi strumenti appresi che ci hanno aiutato a sostenerlo.

Francesca Roberti
Psicologa Clinica e Psicoterapeuta
ad orientamento Psicoanalitico