Perché parlare di maternità? Molte sono le parole spese e tutti sembrano avere da dire qualcosa di significativo su questa esperienza umana. 
Potremmo dire che ci sono molte madri. Tutti abbiamo almeno una madre, sia essa reale o simbolica, presente o assente, di sangue o adottiva. Inoltre, ogni donna prima o poi si confronta – obtorto collo – con una riflessione sul tema. C’è da dire che chi scrive è di recente diventata madre e questo evento, dato il mestiere che facciamo, è un’altra opportunità per interrogare se stesse e la cultura nella quale siamo immerse, condizioni queste imprescindibili per capirci qualcosa della relazione con l’altro. Non da ultimo lavoriamo con donne che si confrontano con la complessità della maternità e che desiderano esplorare quanto stanno vivendo.
Anche nel mondo delle graphic novel si può incontrare il tema della maternità e con un po’ di attenzione ci si può imbattere in due aspetti curiosi. Il primo è che si preferisce raccontare la gravidanza piuttosto che la maternità. Con stile didattico o poetico, il mistero della “dolce attesa” attira diversi autori della nona arte,  specialmente se donne. È il caso del consigliatissimo “Pregnancy Comic Journal. Diario a fumetti di una gravidanza inaspettata” della neomamma Sara Menetti, catapultato dal web alla carta all’inizio di quest’anno. Sempre nostrano, ma di qualche anno fa, è “Non stancarti di andare”, frutto della fantasia di una coppia nella vita: Teresa Radice alla sceneggiatura e Stefano Turconi al disegno.
Ma arriviamo al secondo punto: si parla dei vissuti attorno all’arrivo di un figlio solo in rapporto a eventi imprevisti e drammatici. Se nei fumetti sopra citati gli imprevisti sono stati, rispettivamente, la gravidanza stessa e la distanza forzata tra i futuri genitori, quando si volge lo sguardo a ciò che accade dopo la nascita sembra che occorra scomodare ben altri problemi per legittimare il racconto. Entrambi autobiografici, entrambi scritti dai papà, “Rosalie Lightning: a graphic memoir” di Tom Hart e “Non è te che aspettavo” di Fabien Toulmé sono le uniche due graphic novel tradotte in italiano in cui troviamo traccia dell’esperienza dei primi mesi da genitori. La prima è lo straziante racconto del tempo trascorso con la propria bimba prima della sua morte improvvisa, avvenuta a soli due anni. Con la seconda, invece, l’autore ci rende partecipe delle difficoltà a relazionarsi con la figlioletta affetta dalla Sindrome di Down.
Come dicevamo, al di fuori di importanti problemi, le emozioni legate all’esperienza della maternità sembrano così scontate da non meritare incursioni artistiche dedicate e pensiamo che ciò non riguardi esclusivamente il fumetto. Provando a spostarci in altro genere di letteratura, infatti, ci sembra di trovare indizi di questa scontatezza. Girovagando nel web notiamo che le parole sono spese su due fronti: da una parte il mito della maternità come fatto di natura – il famigerato istinto materno -, dall’altra le diagnosi: madri preoccupate, madri elicottero, madri depresse, troppo distanti, troppo vicine e così all’infinito.
I territori della maternità appaiono ricchi di miti imposti. Maggiore è la produzione di mitologia su una questione, minore è la capacità di pensare e storicizzare la stessa questione da parte della cultura nella quale è inserita.
Intanto due parole sul mito. Mito non tanto come “leggenda”, ma come trasformazione di un aspetto della realtà in un messaggio che dice “questa cosa è così per natura”. E attorno a questa trasformazione si concentra una buona dose di approvazione sociale, tanto da essere difficile mettere in discussione, o perlomeno interrogarsi, sul contenuto del mito stesso. Quando ci si trova davanti ad un mito, si dimenticano le coordinate storiche e culturali di un evento: “è sempre stato così, perché è nella natura delle cose”.
Torniamo all’istinto materno. Non siamo di certo le prime ad interrogarsi sulla questione. Già il pensiero femminista degli anni ’70 aveva messo in guardia circa gli aspetti coercitivi e obbliganti di tale costruzione culturale. Entriamo nel merito. Dal Larousse, edizione web: “È l’istinto di proteggere, accudire, nutrire e sacrificarsi per il proprio figlio, che nasce nella donna subito dopo il concepimento. Si tratta di uno slancio affettuoso che spinge la madre a sacrificarsi per lui”. In primis si parla di istinto. Treccani lo definisce come tendenza innata che provoca negli animali e nell’uomo comportamenti propri di tutta la specie. Uno schema di comportamenti biologicamente determinati e poco suscettibile di variazioni individuali. Se fosse vero, tutte le mamme del mondo in tutte le epoche storiche si comporterebbero più o meno allo stesso modo. Pensate che ci sono delle società in cui la mamma è molto diversa dallo stereotipo occidentale. L’antropologia ci riferisce dei Tikopia (Isole Salomone, Pacifico), ad esempio, i quali prelevano i bambini molto presto dalla coppia genitoriale, così da rompere i legami originari per favorire quelli comunitari. In questo caso chi è la mamma? E come vedere il comportamento della donna che lo ha generato? Lasciarsi prelevare il figlio diventa comprensibile solo se lo si inserisce nel contesto socio culturale in cui è immersa. I Mossi del Burkina Faso, invece, hanno due mamme: quella che li ha generati e quella, in età non più fertile, che li ha allevati. Il principio è l’impossibilità di essere genitrice ed educatrice al contempo, di tenere insieme la funzione biologica e sociale. Se ci pensiamo, sembrano essere all’opposto di alcune famiglie di derivazione cristiana, soprattutto negli USA, che concentrano su di sé queste funzioni tanto da non mandare i figli a scuola e farsi interamente carico della loro educazione.
L’istinto materno è il sottotesto di frasi note, che suonano più o meno così: “Una mamma sa sempre di cosa ha bisogno il suo bambino”, oppure “Appena nascerà, saprai cosa fare”, o ancora “Non preoccuparti, ti verrà tutto naturale”. L’ipotesi di provare, come condizione di normalità e fin dal concepimento, sentimenti buoni e protettivi verso il bambino assomiglia alla sintassi emozionale usata per parlare del colpo di fulmine. Un innamoramento a prima vista, senza che l’altro si conosca. Proiezioni di sé e idealizzazione sono gli ingredienti del colpo di fulmine e, senza passare dal severo setaccio della realtà, questi incontri durano quel poco che serve per deludersi. E se ci troviamo di fronte a culture odierne della maternità, possiamo ipotizzare che tutte le donne, indistintamente, sono chiamate a dare senso alla differenza tra la donna normale di Larousse, che sa sempre di cosa ha bisogno il proprio bambino, e la propria esperienza.
Nel vuoto che si crea tra la realtà e l’imposizione di questi miti, fioriscono le diagnosi.
Molte donne sono ostaggio del mito dell’istinto materno e un discorso sulla maternità crediamo passi per la messa in discussione di una prescrizione culturale che, al posto di una esperienza infinitamente variegata tutta da capire, impone una povertà emozionale secondo la quale le mamme possono provare esclusivamente gioia, tristezza o senso di colpa.
Chi ha vissuto in prima persona o attraverso il racconto di altri le prime fasi della maternità (il puerperio, l’allattamento, le notti insonni) sa che è un’esperienza molto più vicina alla follia che alla realtà e, per non sprofondare nel buco nero delle proprie esaltanti e angoscianti fantasie, diventa molto importante avere una rete di salvataggio, sia essa interna – fatta di strumenti di pensiero e categorie di comprensione di quello che accade – che esterna – amici, amori, famiglia. Lo slancio alla sacrificalità o il desiderio di badare alla protezione dei figli, più che un istinto primordiale come dice Larousse,  è una faticosa acquisizione di responsabilità, un apprendimento, una consapevolezza che si costruisce qui ed ora nella relazione con il bambino e il proprio o la propria partner. Il cambiamento che si realizza non è già scritto, come la mitologia sull’istinto materno vorrebbe. Il piccolo nato è, da principio, una persona da conoscere e le emozioni con le quali entriamo in relazione con lui, se ci si incuriosisce, possono diventare la base per altri miti tutti da costruire, magari meno noiosi e mortificanti di quelli oggi in auge.
E chissà… magari un bel restyling mitologico solleciterebbe anche la creatività di qualche nuovo fumettista! +-

Immagine tratta da: “Pregnancy Comic Journal. Diario a fumetti di una gravidanza inaspettata” di Sara Manetti

Donatella Girardi

Psicologa Clinica e Psicoterapeuta
ad orientamento Psicoanalitico

Federica Melis
Federica Melis

Psicologa Clinica
Da anni immersa nel mondo della consulenza e formazione organizzative, svolge anche attività clinica nello studio privato. Appena può trasforma musica e fumetti in strumenti di lavoro.

Pregnancy Comic Journal. Diario a fumetti di una gravidanza inaspettata” di Sara Manetti, ©Feltrinelli Comics
Posted by:ComeQuando appunti di psicoanalisi

ComeQuando è un progetto editoriale nato dall'incontro di tre colleghe psicoterapeute che desiderano portare la psicoanalisi fuori dallo studio, demitizzarla e avvicinarla ai contesti di vita. Renderla utile e non solo bella. #ComeQuando

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