C’erano una volta le Principesse. Dagli abiti sbuffanti, vaporosi e lunghissimi.
Principesse rinchiuse, addormentate, nascoste, sfruttate nella propria casa, addomesticate all’attesa.
L’implicito è che, un giorno non lontano, conosceranno un principe che le sposerà e le porterà nel proprio castello dove vivranno felici e contente per tutta la loro vita.
Attesa, pazienza, noia e rapimento.
Sì, forse la parola rapimento sa di alquanto drammatico ma passatemi l’iperbole emozionale.
Le principesse di cui ci hanno letto fin da bambini non hanno alcun pregio o valore se non quello di attendere che arrivi un uomo a risolvere i problemi, a liberarle dal drago-matrigna-torre-sonno, per poi imporre loro di lasciare tutto per seguirlo until the end of time.
E perché il principe le ama? Come mai vengono amate? Perché a prima vista, o talvolta anche no, appaiono bellissime e amabilissime.
Biancaneve, Cenerentola, Aurora ovvero la bella addormentata nel bosco, Ariel nella Sirenetta e altre loro colleghe vivono questa favola dell’ attesa sospirata che un principe, (obbligato dal re a mettere la testa a posto), le trovi e le elevi alla condizione di spose e sovrane.
Faccio notare che sia Ariel che Cenerentola vivono i primi incontri con il principe prive della voce: perciò belle e silenti; e che Aurora e Biancaneve innamorano i loro principi sfoggiando le loro doti canore: belle e intrattenitrici.
Da cosa vengono liberate davvero le principesse delle favole?
Talvolta il nodo della favola risiede in un rapporto che non funziona. Come ad esempio quello con una madre/matrigna/maga che ha trasformato il maternage in un rapporto perverso in cui convivono il bisogno dell’oggetto invidiato e temuto (la principessa) e la necessità di distruggerlo incarcerandolo e umiliandolo.
La matrigna umilia, tenta di coprire di stracci la bellezza e la gioventù perché la brama e la invidia.
Nelle “antiche” favole la donna matura vedova nasconde la giovane perché rappresenta la competitor nella corsa verso un matrimonio che metta in sicurezza la vecchiaia.
Tutte le matrigne delle favole sono vedove, sole, a caccia del tempo perduto.
Vorrei per un attimo fare l’ipotesi romantica che le matrigne altro non facciano che tenere quella giovinezza e innocenza al riparo per sempre dal tempo e dal decadimento.
Certa è l’ambivalenza di questi rapporti complessi tra il vecchio e il giovane, tra il passato e il futuro, tra l’attesa e il disincanto che sfilano davanti a noi come una danza dicotomica ballata da principesse incantate e matrigne disincantate.
Colei che incanta e canta raggiunge il cuore del principe. Colei che cucina incantesimi tenta di confonderlo.
Le principesse scappano e tentano di sottrarsi dalla competizione con la anziana del branco.
Attraverso il bosco, la selva oscura, scoprono di riuscire ad individuare risorse dentro e fuori se stesse.
E il principe altro non può fare che aiutarle.
Fino ad oggi…
Da qualche anno assistiamo ad un curioso spostamento del vertice delle favole.
Le principesse cantano ancora ma inneggiano alla loro indipendenza: dagli obblighi, dal trono, dagli uomini.
Non c’è posatezza nella Biancaneve interpretata da Kristen Stewart, che si batte con arco e spada per riprendersi il regno, nè alcuna sottomissione nella Cenerentola che difende i diritti dei lavoratori feudali interpretata da Drew Barrymore.
Così come per le più piccole fruitrici delle favole cinematografiche inizia a farsi strada l’idea che Elsa di Frozen ( primo e secondo lungometraggio) sia l’incarnazione della giovane donna che prima di voler essere regina e sposa sceglie di capire chi sia.
Guardando Rapunzel poi, che gira per il regno armata di padella di ferro, i cui tratti fisionomici suggeriscono, e poi ci viene confermato, una personalità ironica più che di imbambolata delicatezza, ci si accorge di quanto coraggio e voglia di avventura essa abbia.
Rapunzel chiede che le venga concesso di poter seguire il suo sogno, il suo personalissimo desiderio.
Non quello che ci si aspetta da lei bensì quello che la spinge ad andare per la sua strada.
Aspettando con impazienza l’uscita del nuovo Mulan in live action della Disney, possiamo intanto ricordare come Mulan arrivi ad affermare la sua identità di genere rischiando la pena di morte.
Lei salva il padre perché è giusto farlo. E salverà se stessa dimostrando competenza e valore.
Spogliandosi delle vesti da principesse queste eroine divengono simboli della volontà a seguire il proprio cammino senza lasciarsi condurre dalle leggi conformistiche proprie delle favole.
Attraverso un viaggio formativo, le principesse scoprono che c’è uno spazio oltre le rigide imposizioni della trama scontata.
Che possono sbagliare strada, perderla e ritrovarla, costruirla nuova, andare a fondo nel passato per cambiare il loro futuro.
Sento interessante ricordare che non lo fanno da sole: sono le altre donne della favola, sorelle, balie, figlie, che permettono loro di scoprirsi parte di quella che oggi chiamiamo rete, risorsa esterna in grado di coadiuvare la protagonista in difficoltà.
Donne che non rinunciano alla loro femminilità ma che proprio in virtù di essa apportano, non portano, un nuovo punto di vista di azione che le conduce al proprio svelamento e alla risoluzione dei nodi che le hanno indotte a mettersi in viaggio.
Le famiglie matriarcali, i gruppi di amiche, le chat delle mamme della IIB, della palestra, del corso di yoga, sono spazi dove, se le donne si riescono a ricordare quanto possono essere di supporto le une per le altre, viene costruita una appartenenza che limita, se non argina totalmente, il rischio dell’ isolamento sociale che può portare la donna a sentirsi impossibilitata a far fronte momenti di vita difficili.
Concludo pensando che le principesse oggi hanno tanto a cui pensare, da costruire, da scoprire prima di immolarsi al “mal d’amore”.

Carolina Host
Psicologa Clinica e Psicoterapeuta
ad orientamento Psicoanalitico