Immagine tratta da “Un lavoro vero” di Alberto Madrigal


È molto frequente che venga contattata per una psicoterapia da uomini e donne tra i 30 e i 40 anni, giovani adulti che portano i loro vissuti inerenti alcune assenze. Parliamo dell’assenza dei figli, di relazioni sentimentali che sanno durare, di una casa di proprietà, dell’indipendenza economica, di un lavoro sentito come affidabile, del riconoscimento delle proprie capacità, di soldi. In altri termini portano la cultura del fallimento delle mete tradizionali, attese tradite che aprono a scenari di grande complessità emozionale, dentro di sé, nella relazione terapeutica così come nella società più allargata. 
La giovinezza diventa così una condanna o una droga, in entrambi i casi qualcosa di cui varrebbe la pena liberarsi, spesso la diagnosi di una malattia socialmente determinata, di chi si sente vittima del paradigma dello sviluppo per tappe lineari. La stessa psicoanalisi ne è vittima, talvolta. Lo è quando si propone come strumento per “maturare” o “crescere”, finalità valoriali che trovano senso solo nel conformismo di chi li propone.
Assistiamo alla crisi del paradigma secondo il quale l’uscita dal nucleo familiare corrisponde con il matrimonio e con l’istituzione di un nuovo nucleo familiare. Alcune decine di anni fa non vi era motivo, sufficientemente condiviso socialmente, di organizzare progetti di vita differenti. Il futuro corrispondeva ad un destino. Con queste premesse diventare adulti rischia di essere vissuto in modo persecutorio, come prescrizione sociale all’adesione ai modelli culturali delle generazioni precedenti. Mi torna alla mente il sogno di un paziente: tutti gli orologi segnavano trenta minuti di ritardo su vari treni e aerei persi. A comunicargli il ritardo era un uomo della stessa età del padre. Inizia così la seduta successiva al suo trentesimo compleanno.
I demografi hanno parlato di “Sindrome del Ritardo”, riferendosi con questa formula alla tendenza a rinviare le scelte di vita attribuite all’età adulta. Sul web le parole spese sul tema sono ingrate, oscillano tra la criminalizzazione dei “giovani bamboccioni”, ancora dipendenti dal nucleo familiare per pigrizia ed incapacità ad assumersi responsabilità, alla criminalizzazione delle generazioni precedenti che hanno vampirizzato e ancora vampirizzato le risorse scarse -scarsissime- dei giovani odierni. In alternativa, al centro del mirino sono le condizioni sociali, le variabili strutturali del problema e che, in quanto tali sono vissute come intrattabile, immodificabili. 
Ma c’è dell’altro.
Queste persone portano il proprio sentimento di sconfitta. La propria realtà (lavorativa, sociale, sentimentale, economica, formativa, etc.) è tollerata amaramente come esito del fallimento delle proprie attese. 
Negli studi di psicoterapia questo fenomeno assume diverse forme ma due sono preponderanti: da una parte l’ampia e variegata fenomenologia depressiva (“non sono in grado di ottenere ciò che mi spetterebbe di diritto”), dall’altra un’avida e onnipotente rincorsa al possesso dell’oggetto (“ho diritto ad avere di più e mi prendo tutto”) che si presenta con l’esperienza dell’ansia e dell’agitazione senza possibilità di parola. In entrambi questi casi, le attese, con l’abito del diritto negato, diventano pretese, e le pretese vanno nella direzione opposta dell’ottenere-realizzare.
Non ne parlo esclusivamente come fenomeno individuale ma come condizione di interi gruppi sociali che strutturano identità e conflitti a partire da queste reciproche rappresentazioni.
L’ipotesi è che tutte le assenze rintracciate nella propria vita, gli ostacoli e i limiti incontrati nella realizzazione di sé, siano emozionalmente trasformati in vuoto angosciante.
Nella dimensione depressiva il vuoto viene preservato, in quella avida e vorace viene negato e riempito illusoriamente. Quest’ultima è l’esperienza di chi vive ogni aspetto della propria vita come “treno che passa una volta sola”, di chi compra tutto senza esserne mai soddisfatto, di chi riempie il proprio curriculum di master e corsi senza riuscire a valorizzare nulla di quello che fa. Nella clinica contemporanea “l’avere di più dalla vita”, assumendo la forma di un diritto negato, porta l’esito drammatico della sindacalizzazione dei rapporti, dove lottare e resistere rimangono le uniche forme di esistenza.
Cosa può fare la psicoanalisi? Cosa c’entra la creatività?
Per come la vedo, uno studio di psicoterapia dovrebbe configurarsi come laboratorio artigianale di idee, una bottega, un’officina. La possibilità di creare, di fare qualcosa di sé e della propria vita, passa dalla capacità di utilizzare le condizioni del contesto come trampolini di lancio. Si tratta di costruire la competenza a valorizzare ciò che si ha e ciò che si è. Questa affermazione, che sembra banale nella sua semplicità, è quanto di più difficile ci si possa chiedere. Vuol dire rinunciare al potere che dà il sentirsi vittima degli eventi e tessere pazientemente il proprio presente ed il proprio futuro partendo da ciò che c’è. 
A tal proposito mi viene in mente l’incipit del primo capitolo del libro Come funziona la musica di David Byrne:
“Ho capito molto lentamente cosa sia la creazione. Pian piano si è fatta strada in me l’idea che il contesto determini in larga parte ciò che è scritto, dipinto, scolpito, cantato o eseguito. Non sembra una grande idea, ma è l’opposto del senso comune, secondo cui la creazione emerge da un’intima emozione, dallo sgorgare della passione e del sentimento, e l’impulso creativo non tollera restrizioni (…) Tale è l’idea romantica del lavoro creativo, ma credo che il vero cammino della creazione si situa agli antipodi di questo modello. Credo che, inconsciamente e istintivamente, adeguiamo il nostro lavoro a schemi preesistenti”.
Byrne chiama questo “creazione alla rovescia”. Si tratta di rovesciare il mito della creazione.  Io credo si possa dire anche del mito di sé, imparare a prendersi in giro, quella falsa proiezione di sé sempre un po’ al di sopra e al di fuori di come ci sentiamo veramente.
Per finire “avere di più dalla vita” più che un diritto è l’esito di un processo creativo innescato dall’incontro di ostacoli. Sono i problemi a far venire le idee.

Donatella Girardi

Psicologa Clinica e Psicoterapeuta
ad orientamento Psicoanalitico

Posted by:ComeQuando appunti di psicoanalisi

ComeQuando è un progetto editoriale nato dall'incontro di tre colleghe psicoterapeute che desiderano portare la psicoanalisi fuori dallo studio, demitizzarla e avvicinarla ai contesti di vita. Renderla utile e non solo bella. #ComeQuando

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